GdK 8: La banalità di Max Planck

Un bel giorno una bambina decise di scrivere qualcosa; poteva avere sui sette anni, non di più. Contenta del risultato, portò tutta trionfante il foglietto a una certa persona. “Banale“, ecco la risposta. Non “brutto“, non “scritto male“, non “sei sulla strada giusta, ma prova ancora“. “Banale“, solo quello.

Trattandosi di una bambina, è ragionevole pensare che quanto avesse scritto, un po’ banale lo fosse. Mettendomi nelle sue scarpette numero 35, però, penso anche che mettere insieme quelle due frasi per lei avesse significato uno sforzo concreto. Magari, per un istante era stata orgogliosa di quello che aveva scritto, ma la realtà era più complessa; quello che per lei era una conquista, per l’altra persona era meno di niente. Basta cambiare prospettiva per capire quanto sia ambiguo il concetto di banalità, in particolare per come viene comunemente usato.

Traumi infantili a parte, ho sempre guardato con sospetto alla parola “banale”, generica e usata con una certa leggerezza. Eppure, originariamente indicava qualcosa di preciso: il contenuto dei bandi di un ipotetico signore, con cui forniva alla comunità beni di uso comune e/o norme di condotta. Quanto era banale toccava la vita comune in modo concreto, nel bene e nel male. Da termine tutto sommato neutro, ha finito col diventare qualcosa di necessariamente negativo, una specie di stigma, sinonimo di dozzinale, sciatto, insipido, comune, poco originale, scontato o degno di essere dato per scontato. Non è più solo una parola, ma un modo per porre un limite senza fornire troppe spiegazioni. Non capisco? È banale (o mi vogliono fregare). Non mi interessa approfondire? È banale. Non mi vai giù? È banale.

Libero arbitrio Max Planck.jpg
Contiene il testo di un discorso, Legge di causalità e libero arbitrio (Berlino, Accademia prussiana delle scienze, 17 febbraio 1923) e di una prolusione, Sulla natura del libero arbitrio (Lipsia, Società filosofica tedesca, 27 novembre 1936).

Ultimamente mi è capitato di ripensare a tutto questo dopo aver dato uno sguardo all’introduzione di un libro, Libero arbitrio di Max Planck. Nell’introduzione, il curatore scrive come Simone Weil riconosca il valore di rottura della teoria dei quanti e del lavoro di Planck; “anche se si dovesse rivelare sbagliata o non del tutto esatta in certe sue applicazioni sembra destinata a diventare il nuovo fondamento del mondo” [M. Planck, Libero arbitrio; Castelvecchi, 2018. P. 21]. Eppure, nel giro di poche righe, Planck diventa qualcosa di totalmente diverso, un uomo capace di dire solo “banalità”, basta che si allontani dalla trattazione dei quanti. Devo dirtelo, sono rimasta con un palmo di naso. Stavo leggendo una cosa della Woolf, ma ho mollato tutto per passare a questo; dovevo capire cosa ci fosse (e se, ci fosse) di banale nel testo di Planck.

Terminata la lettura, mi sono data una risposta e no, non l’ho trovato banale, ma forse è dovuto al mio affetto per l’autore. Qualcuno mi ha detto che idealizzo la fisica e non posso dargli torto; non ne capisco abbastanza per essere imparziale.

Max Planck in montagna 1930

Max Planck, poi, è una di quelle figure per cui sento una certa fascinazione, una specie di amore non corrisposto, e per tutta una serie di motivi più o meno insormontabili. C’è il fatto che lui non è tecnicamente vivente e se anche fosse qui vicino a me, dubito che capirebbe l’italiano o il mio stentato inglese. Esiste però qualcosa che mi rende affine questa persona, indipendentemente da tutto, ed è il dubbio, il desiderio di capire, la presa di coscienza della propria fragilità e della necessità di superare i propri pregiudizi. O il senso della meraviglia. Quando fai due passi su un sentiero di montagna, sempre che tu non sia stanca morta, non puoi fare a meno di cogliere in un colpo d’occhio quanta bellezza e complessità ci sia intorno, nel cielo come in un singolo, minuscolo filo d’erba. O nella foglia ancora attaccata al suo ramo. Ci pare perfettamente normale che le piante prendano l’anidride carbonica e la trasformino in ossigeno, ma nel riprodurre la fotosintesi siamo pressoché all’inizio, non c’è proprio niente di scontato. Parlo da persona innamorata delle cose, perché è questo che sono.

Le domande che si fa Planck in questo libro sono quelle che mi farei io o che ti faresti tu, ma quello che mi colpisce maggiormente è il modo in cui affronta la questione, a passi brevi e quanto più possibile saldi. Poniamo il caso che Planck sia vivo e vegeto, che parli italiano e che mi abbia invitato a un’escursione in montagna. Camminerebbe lentamente, assicurandosi che stia al passo, fermandosi qualora lo ritenga opportuno. Un passo dopo l’altro, non chiederebbe niente di più, solo di poter proseguire sul sentiero, anche qualora si facesse più ripido.


Max e Marga Planck nel 1924
Max Planck con la moglie Marga nel 1924

Il successo ottenuto da Planck nella fisica, disciplina per la quale non riteneva di avere un dono particolare, […] veniva da lunghe riflessioni e dalla lenta maturazione delle idee. Non si precipitava dietro le novità (“essendo per mia natura tranquillo e poco propenso a discutibili avventure”), né queste destavano grande risonanza in lui (“giacché malauguratamente non mi fu dato di reagire con rapidità agli stimoli dell’intelletto”). Manifestò sempre grande meraviglia all’altrui capacità di seguire simultaneamente più linee di ricerca; come ebbe a scrivere ad Arnold Sommerfeld, […] incontrava gravi difficoltà “ad abbandonare rapidamente un tema dopo essersi aperto la strada fino a esso e a riprenderlo rapidamente in esame alla successiva occasione favorevole”. “Rapidamente” non era la velocità a lui congeniale.

[Heilbron, I dilemmi di Max Planck. P. 11]


Le conseguenze dei propri studi hanno portato Planck ad accettare determinati esiti, indipendentemente dalla propria stessa volontà. Ha dovuto buttare dalla finestra molte presunte certezze. Libero arbitrio raccoglie un’analisi di queste conseguenze sulla propria vita e sul proprio modo di vederla, la vita. Si discute della validità del nesso causale dopo la rivoluzione dei quanti. Non vuole essere originale, non è a questo che mira, parte dai fondamentali e fa la sua strada, chiedendosi anche se sia utile porsi le domande che si pone.

Simone Weil

“André Weil […] mi autorizza a riferire che egli non ebbe modo […] di rettificare il giudizio fortemente critico espresso a più riprese dalla sorella sull’opera di Max Planck. A mio avviso, Simone fu fuorviata dalla lettura di un lavoro divulgativo (Max Planck, Initiations à la physique, Flammarion, 1941), del tutto insufficiente a rendere ragione della complessità dei procedimenti scientifici che sono a fondamento della teoria dei quanti.” [Giancarlo Gaeta, in nota a Simone Weil, Quaderni, vol. I; Adelphi, 2004. P. 293]

Intanto, continuo a chiedermi cosa si aspetti la Weil da Planck, e una risposta non sono in grado di darla, al di là di quello che chiamerei un fraintendimento di fondo, ma poco importa.

Che tu sia una bambina che ha appena intuito il piacere di scrivere o un fisico, ci sarà sempre qualcuno pronto a sfoderare la parola magica. E allora? Che fare? Togliermi il banale significa togliermi tutto, privarmi della linea guida, significa dare per assodato qualcosa che magari non lo è affatto. E per cosa? Per l’originalità? Non so essere originale, mi dispiace, d’altra parte non è obbligatorio esserlo. Continerò a fare i miei passi con calma, arrivare a determinate conclusioni, le stesse cui magari una persona a caso è arrivata molto prima di me.

Qualcuno di mia conoscenza mi ha scritto un giorno che

tutto deve essere nuovo, sconcertante, fantasioso, e alla fine? Alla fine vengono fuori delle gran boiate.”

Alpaca
La suprema morbidezza

Non posso che dargli ragione. Per scappare dalla banalità si finisce spesso e volentieri nell’assurdo, e perché poi? Perché si confonde erroneamente il banale con il semplice, con la lentezza o con la noia, come se fosse necessariamente un disvalore.

Pensa a una serie televisiva di discreto successo. Un gruppo di persone porta avanti una fattoria, ci sono fatti più o meno divertenti, mucche che partoriscono, tori che devastano il recinto per tornare dalla fidanzata e alpaca morbidissimi. Passano le stagioni, una delle due attrici di punta decide di lasciare la serie e gli sceneggiatori si adeguano procurandole una via d’uscita strappalacrime. La serie regge, arriva una nuova attrice, il personaggio è accattivante e puntata dopo puntata sembra crescere. Le idee, chissà come, però, sembrano finire. Come migliorare la cosa? Segreti insensati, esiti anormali, reazioni assurde a fatti assurdi, con esiti sul limite del trash. Uno degli antagonisti, dapprima decentemente delineato, non può interessare nessuno finché rimane un ex avvocato, per cui deve diventare un ex pugile ed ex autotrasportatore, così, non si sa bene perché. Stupore! Tutti i personaggi iniziano a dare di matto, con la coerenza interna che va a farsi benedire. Un tizio muore cadendo da un ramo, salvo poi filmarsi proprio mentre sta morendo per lasciare un videomessaggio al figlio che bla bla bla… Era troppo “normale” continuare a concentrarsi sulle attività delle varie fattorie, approfondendo la psicologia dei personaggi così come nelle prime due stagioni, perché pare che servano colpi di scena di continuo. Viene fuori una gran porcata, ecco cosa viene fuori. La normalità, evidentemente, non suscita abbastanza interesse, non se ne vorrebbe occupare nessuno, peccato che ci siamo dentro fino al collo.

10 pensieri su “GdK 8: La banalità di Max Planck

  1. Già mi pregusto commenti a questo post del tipo “forse è un po’ banalizzare” oppure “post non banale” e allora da vero rompiscatole lo dico, anzi, l’ho detto io! 🙂
    Gli alpaca morbidosi sono da leggenda, giuro, vorrei avere scritto cose bellissime su di loro e non è detto che Bob non ne incontri qualcuno subito…
    Ti ribloggo (a tempo) tra un po’!

    1. Gli alpaca sono il lato fuffoso dell’universo, come farne a meno? In giro ci sono allevamenti di alpaca, magari uno particolarmente avventuroso è appena scappato espressamente per incontrare Bob, e chi lo sa? Comunque andrà, sarà uno scontro epico fra morbidezze 😀

          1. Perbacco! Già, da controbattere a Coccolino, che però ora è anche in versione concentrata! (sappi che i sistemi di ricerca lazy adesso ti terranno d’occhio e che le società di ricerca di mercato controlleranno i tuoi post!).

  2. Seduto in auto, nel parcheggio di un centro commerciale, aspetto che un’ora del tempo che mi è concesso vivere su questo mondo se ne vada. Normale. Quindi banale.
    Ma ho letto il tuo articolo.
    Mi è piaciuto.
    Buon proseguimento.

  3. Pingback: Peccato non esista il ventiduesimo… | ilperdilibri

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